Educazione psicomotoria
come profilassi
Perchè
i gruppi di psicomotricità?
Proponiamo l'iscrizione in questi gruppi a bambini che presentano delle problematiche evolutive non patologiche; il lavoro svolto con loro viene, dunque, ad ascriversi nel campo della prevenzione e della psicoprofilassi, che è da riconoscere, a nostro avviso, come uno degli spazi privilegiati della psicomotricità relazionale.
Fare prevenzione significa occuparsi non tanto della patologia o del disagio, che andrebbero rimossi, ma della salute, che va tutelata e promossa.
Quindi anche con i bambini che vengono accompagnati da noi a causa di un problema, di un disagio, di una segnalazione scolastica, e per i quali sia escluso un quadro chiaramente patologico, non si tratterà tanto di lavorare sul problema che ci presentano, ma piuttosto sulle risorse attive di ogni bambino; l'intento è quello di aiutarli a costruire e a conservare un equilibrio personale dinamico all'interno del quale ognuno di loro possa iscrivere il proprio processo di crescita, dove sia loro possibile far interagire le proprie istanze, i propri bisogni, il proprio linguaggio in modo armonico con le richieste che provengono dalla realtà familiare e sociale nella quale sono inseriti.
Non possiamo però fare a meno di chiederci da dove nascano il disagio, il disadat-tamento, e perché: l'esperienza ci dice che i problemi che più frequentemente ci vengono sottoposti sono problemi relativi al comport-amento (eccessiva aggressività o inibizione), problemi legati all'apprendimento (il bambino è intelligente, ma non impara; rende molto meno di quanto potrebbe; non sa esprimersi; ecc.), problemi di socializzazione (non sa stare insieme agli altri; si isola; litiga sempre; ecc.); cioè,.tutte quelle problematiche, più.o meno gravi, legate all'evoluzione infantile, che non sono riconosciute come patologie, ma che sono le situazioni che più facilmente mettono in crisi le istituzioni sociali che il bambino frequenta, il ruolo stesso di genitori, insegnanti, educatori.
Infatti, in presenza di una patologia riconosciuta, pur permanendo una serie di problemi emotivi e pratici anche complessi, le strutture e le persone responsabili dell'educazione del bambino si sentono maggiormente rassicurate, poiché la "colpa" delle sue insufficienze è comunque da attribuirsi alla malattia; il cosiddetto disadattamento, invece, tende a mettere in discussione la stessa pratica educativa.
In effetti, l'incontro tra adulto e bambino è anche l'incontro (o lo scontro) tra due culture
diverse: la cultura dell'adulto è prevalentemente di tipo digitale, razionale, ipotetico-deduttiva; la cultura del bambino è, invece, soprattutto analogica, magico-animistica, empirica. In sé, entrambe le impostazioni hanno dei valori,
esprimono delle potenzialità per capire ed affrontare alcuni aspetti del mondo che ci circonda.
Pensiamo, anzi, che una buona integrazione tra il linguaggio analogico e quello digitale, tra il mondo magico e quello razionale, possa agevolare
lo sviluppo intellettivo e le capacità comunicative tanto degli adulti quanto dei bambini.
L'adulto, però, spesso si comporta con il bambino in modo colonialista, tentando, cioè, di cancellare la cultura ritenuta più
debole ed inadeguata per imporre la propria, i propri punti di vista, il proprio linguaggio.
La pratica psicomotoria ha tra i propri fini principali quello di fondare con il bambino un rapporto empatico basato su parametri comunicativi condivisi, che permetta di gettare un ponte che attraversi quel solco di cui si diceva prima.
Sono infatti
la mancanza di equilibrio, l'incapacità di gettare questo ponte che permetta al bambino di esprimere compiutamente la propria cultura, integrandola poco a poco con i parametri della cultura adulta, quando occorre (ma senza smarrire o cancellare
la propria), che creano il disagio e il disadattamento.
In effetti, l'incontro tra adulto e bambino è anche l'incontro (o lo scontro) tra due culture diverse: la cultura dell'adulto è prevalentemente di tipo digitale, razionale, ipotetico-deduttiva;
la cultura del bambino è, invece, soprattutto analogica, magico-animistica, empirica. In sé, entrambe le impostazioni hanno dei valori, esprimono delle potenzialità per capire ed affrontare alcuni aspetti del mondo che ci circonda.
Pensiamo, anzi, che una buona integrazione tra il linguaggio analogico e quello digitale, tra il mondo magico e quello razionale, possa agevolare lo sviluppo intellettivo e le capacità comunicative tanto degli adulti quanto dei bambini.
L'adulto,
però, spesso si comporta con il bambino in modo colonialista, tentando, cioè, di cancellare la cultura ritenuta più debole ed inadeguata per imporre la propria, i propri punti di vista, il proprio linguaggio.
La pratica psicomotoria ha tra i propri fini principali quello di fondare con il bambino un rapporto empatico basato su parametri comunicativi condivisi, che permetta di gettare un ponte che attraversi quel solco di cui si diceva prima.
Sono infatti
la mancanza di equilibrio, l'incapacità di gettare questo ponte che permetta al bambino di esprimere compiutamente la propria cultura, integrandola poco a poco con i parametri della cultura adulta, quando occorre (ma senza smarrire o cancellare
la propria), che creano il disagio e il disadattamento.
La psicomotricità è una pratica, prima che una teoria; una pratica che permette all'adulto di avvicinare il bambino globale, di comunicare con il suo corpo, con la sua intelligenza
in formazione, con le sue emozioni. Dentro lo "spazio magico" di una seduta psicomotoria si può permettere ad un bambino di far emergere i suoi conflitti e le sue paure, di dare forma e voce ai suoi fantasmi, all'interno della struttura "narrativa"
del gioco e della relazione con l'adulto.
Bisogna, dunque, costruire degli spazi dove il bambino possa fare richieste, esprimere dei bisogni, dettare delle regole; un luogo dove questi bisogni, desideri, regole, siano riconosciuti come legittimi. Uno spazio dove il bambino si senta libero dal
dover essere,conforme alle aspettative del mondo adulto, per poter esprimere semplicemente se stesso, ciò che sente, ciò che vive.
In effetti lo sviluppo dell'essere umano non è solo sviluppo di conoscenze ("il cosa"), ma è
soprattutto sviluppo della capacità di incidere sulle condizioni che favoriscono il proprio sviluppo ("il come"), sulle condizioni che gli permettono di esprimere se stesso, i suoi desideri e i suoi bisogni.
Ogni bambino è in grado,
se lo si ascolta, di dettare le condizioni ottimali del proprio procedere, quelle condizioni che determinano per lui il miglior equilibrio possibile in ogni dato momento o, per converso, la possibilità di accettare il rischio del cambiamento.
Se si riconosce al bambino questo potere, allora l'ottica dell'ascolto si sposa con il bisogno di una continua, imprevedibile e pertanto inquietante necessità di ristrutturazione delle situazioni, in una logica di simmetria di ruolo, di capacità,
di potere, tra educando ed educatore.
Nel riconoscimento di un pari diritto di esistere, di con-tare nelle situazioni, si collocano le radici di una fiducia reciproca che è punto di partenza imprescindibile, per il bambino, per affrontare il problema fondamentale di questa fase evolutiva che è la distanza dall'adulto e, a partire da questa, per affrontare la grande scommessa della costruzione di una identità personale e sociale solida, rassicurante, impregnata di quel senso di fiducia in se stesso che il bambino può ricevere in prima istanza solo da un adulto fiducioso ed affidabile; un adulto che gli consenta di pensare possibile l'improbabile, di vivere con curiosità e non con paura l'ignoto, che gli consenta, per dirla alla Petter, di allargare il suo spazio psicologico di libero movimento.
La presa di distanza, l'individuazione, l'autonomia, il senso di un Io competente, pensante, desiderante e separato "dall'altro", è conquista difficile, progressiva e non lineare, che incontra spesso l'ostacolo di un adulto talora incapace, lui per primo, di aiutare il bambino nel passaggio da una fase simbiotica ad una di autonomia. Il compito del bambino è quindi complesso, progressivo, pieno di incertezze che si giocano tutte in uno spazio transizionale che definisce la distanza che si viene a creare tra il bambino ed i suoi genitori, uno spazio che viene riempito con l'accesso al simbolico.
E' questo uno spazio magico in cui realtà e fantasie o fantasmi si intrecciano, si sovrappongono, si con-fondono; uno spazio a cui il bambino ha accesso in virtù di inevitabili frustrazioni che il principio di realtà impone al principio di piacere; uno spazio in cui si gioca la partita decisiva tra una struttura di sopravvivenza (o se si vuole un falso Sé) ed una identità ricca, forte, temeraria ed autentica.
La prima irrigidisce la personalità, rende ripetitivi gli atteggiamenti ed i comportamenti dell'individuo, e la rigidità diventa sinonimo di falsa sicurezza; il tentativo che il soggetto compie è quello di adattare forzatamente la realtà a sé.
La seconda è autenticità, fluidità, disponibilità all'insicurezza del nuovo, è capacità di adattare sé alla realtà.
L'incapacità, a volte solo momentanea, altre volte più radicata, di costruire questo equilibrio evolutivo, dà origine a quelle problematiche non patologiche, ma spesso, così difficili da gestire, che ritroviamo in molti bambini, e che vengono segnalate soprattutto durante la frequenza alle scuole elementari, dove le proposte didattiche e il contesto educativo in generale appaiono meno in grado di contenerle. "Ho provato con le buone, ho provato con le cattive, ma... niente! Non so più cosa fare..."; è una frase "storica" che sentiamo spesso da insegnanti e genitori.
Il problema posto pare irresolubile perché è mal posto: non si tratta infatti di modificare soltanto una modalità di comunicazione (con le buone o con le cattive), ma di mettere il bambino in condizione di sostenere uno scambio relazionale corretto, ove gli sia possibile dare e prendere; occorre, cioè, che lo spazio transizionale sia stato adeguatamente riempito di contenuti simbolici soddisfacenti, ricchi, equilibrati; occorre altresì che la definizione della distanza di cui abbiamo parlato sia adeguata al momento evolutivo del bambino e alla particolare situazione emotiva che sta vivendo nel "qui ed ora".
Per questo è importante la prevenzione che significa, come dicevamo, non lavorare per cancellare la sintomatologia,
forzando il bambino ad adeguarsi ad un sistema di comunicazione che non lo riconosce, ma lavorare in percorso per sostituire l'agio al disagio, il benessere al malessere, l'interesse alla paura; per riattivare e sviluppare competenze comunicative inespresse.
Lo scopo di un intervento di psicomotricità relazionale può essere, allora, quello di aiutare il bambino a costruire un Sé più consapevole ed equilibrato, mettendo a sua disposizione un luogo che chiameremo spazio magico,
uno spazio entro il quale libero da ciò che deve essere, possa essere ciò che è; uno spazio-laboratorio entro il quale il bambino possa costruire empiricamente la propria immagine di Sé, possa sperimentare e sviluppare le
proprie competenze relazionali, le proprie abilità negoziali con i coetanei e con l'adulto.
Dott. Carlo Petitti